eco we
Lutto per l'animale amato
Dall’improvvisa morte di Sinci, amato gatto, parte integrante della famiglia dell’autrice, riflessioni sulla la paura della morte e la rimozione della morte nella nostra società, sull’elaborazione del lutto, sul ruolo dei medici e dei veterinari in questi frangenti e sul superamento del dolore.
“Il trambusto in una casa
è l’attività più solenne
che si svolga sulla terra
il mattino che segue la morte.
Si spazzano i cocci del cuore
con cura si ripone l’amore
che non vorremmo più usare
fino all’eternità.”

(Emily Dickinson)


Ho reagito all’intenso dolore che mi ha sopraffatta dopo la morte del mio gatto poco meno di un anno fa, anche grazie alla scrittura di queste pagine, composte inizialmente sotto forma di diario, usando la scrittura per fissare eventi, emozioni, stati d’animo, spinta da un desiderio di catarsi e di liberazione. Con il procedere dei giorni e il placarsi delle emozioni, la scrittura si è presentata come occasione di testimonianza e riflessione, sostenuta nell’ultima parte dalle parole di Barbara Alessio, psicologa e psicoterapeuta, autrice di un bellissimo articolo del quale ho trascritto e riassunto le parti per me più significative.
Tutto questo lavoro è nato inizialmente a mio uso e consumo, anche il riassunto dell’articolo mi è servito in quel momento per colmare un vuoto, per entrare in contatto “lentamente” con quelle parole che mi apparivano così importanti e significative. Metto volentieri a disposizione questa mia testimonianza, senza apportare sostanziali modifiche al testo originale, senza crearmi il problema di conferire organicità al testo, se non attraverso le titolazioni.


La morte di Sinci

Martedì 6 marzo 2007, in una brumosa giornata precocemente primaverile, Sinci è morto.
Sinci era il mio gatto. Il vuoto che mi ha lasciato è incolmabile e il dolore per la sua perdita, inconsolabile.
Tutto è accaduto rapidamente, in modo inaspettato, un vero e proprio shock, dal quale stento a riprendermi. Sto vivendo una intensa e dolorosissima esperienza di lutto per questa amata creatura che con la sua presenza, il suo affetto, la sua simpatia, la sua bellezza, la sua armonia, mi ha dato stabilità e affetto, calore e bellezza.
Nel giro di poche ore, la mia esistenza è stata messa soqquadro, mi ritrovo catapultata in una dimensione fredda, estranea in cui stento a riconoscere i contorni della realtà, in cui le cose note diventano estranee, lontane, private della affettività e familiarità rassicurante conferita loro dalla presenza di Sinci. La mia casa è diventata un luogo freddo, estraneo. Io non so più dove stare. Sinci aveva riempito tutti gli spazi, anche fisicamente. Entro in casa e mi aspetto di vederlo nell’ingresso che mi aspetta. Non c’è. Vado in cucina e mi aspetto di vederlo dormire su una sedia o sdraiato sul tavolo (sì, gli avevo concesso alcune “cattive” abitudini). Non c’è. Il piumone bianco sul letto mi fa tanto male perché quello era il suo posto preferito. Ora è tutto vuoto, Sinci non c’è, Sinci non c’è più, Sinci è morto. Per una simbolica coincidenza, il giorno della morte del micio, hanno spento i termosifoni perché la temperatura esterna era salita. Proprio quella sera però, è piovuto e la temperatura è nuovamente scesa. Rientrare nella casa fredda, vuota, con i termosifoni spenti è stato tanto doloroso, tanto insopportabile. Da tre giorni, le immagini della mia vita con il gatto e le sequenze della sua rapida e incomprensibile fine, si susseguono nella mia mente e mi creano un devastante dolore. Sinci aveva 13 anni e godeva di grande vivacità e ottima salute. Dopo aver trascorso un pomeriggio a dormire, lunedì sera ha cominciato a respirare affannosamente con l’addome e ad emettere un suono rasposo di gola. Ho telefonato al mio veterinario, mi ha detto che si poteva trattare di problemi respiratori e di portarglielo in ambulatorio la mattina successiva. Alle 9 di sera, niente affatto rassicurata, ho portato il micio al pronto soccorso della clinica veterinaria e lì, dopo una radiografia, gli hanno diagnosticato la pleurite e gli hanno fatto un’iniezione di cortisone e una di antibiotico, dicendomi di riportarlo a casa e di aspettare la mattina successiva. La mattina del giorno dopo Sinci era peggiorato, respirava affannosamente ed emetteva gemiti strazianti. Ho richiamato il mio veterinario, ho caricato il gatto in macchina e gliel’ho portato. Appena l’ha visto ha capito che era grave, e dopo avergli fatto un’iniezione di cortisone mi ha detto di riportarlo alla clinica veterinaria per metterlo sotto ossigeno. Lui nel frattempo avrebbe telefonato alla clinica per consultarsi con i colleghi e annunciare il nostro arrivo. Come una pazza, l’ho caricato nuovamente in auto e sono partita alla volta del lato opposto della città, maledicendo il traffico e pregando Dio che non lo facesse morire. Arrivati a destinazione, con la massima urgenza è stato messo nella gabbietta ad ossigeno, gli hanno applicato la flebo, rifatto le radiografie e diagnosticato un drammatico peggioramento: pleurite e sospetta disfunzione cardiaca. Io mi sentivo distrutta, disperata, completamente incapace di controllare le emozioni e il pianto. Mi hanno consigliato di andare a casa. Erano le 11.30. Alle 13 ho telefonato e mi hanno detto che il gatto non aveva risposto alle cure e che le speranze si affievolivano. Alle 13 e 40 mi hanno richiamato per comunicarmi che era morto.
Cosa è successo? Come ha potuto succedere? Dove ho mancato? Si poteva evitare questa morte? E se l’avessi portato direttamente alla clinica veterinaria martedì mattina? E se la sera di lunedì l’avessero ricoverato? Dicono che la causa scatenante sia stata un virus. Dove l’ha preso? Forse negli spostamenti del fine settimana dalla città alla campagna? Forse quando ho fatto fare dei lavori in casa che hanno fatto polvere?
La reazione iniziale è stata di shock e negazione. Un tentativo ossessivo e disperato di ripercorrere tutte le fasi e di trovare l’errore, la falla, la colpa, il colpevole. L’evento che poteva fare la differenza e lasciarmelo ancora in vita.

Ieri, mercoledì 7 gennaio, con la morte nel cuore, ho raccolto le tue cose Sinci: la ciotola dell’acqua, quella del cibo, la lettiera, la scorta di scatolette e crocchette che avevo fatto la scorsa settimana. Regalerò il cibo, metterò in cantina i tuoi effetti personali. Forse un giorno prenderò un altro gatto. Forse.
Ieri pomeriggio ti abbiamo seppellito. Sono andata a prenderti alla clinica veterinaria accompagnata da Alessandra. Assieme siamo andate alla casa di campagna dove ci ha raggiunte Walter.
Papà aveva scavato una buca nel boschetto di pini e lì ora riposi, amatissimo e bellissimo gatto che tanto vuoto hai lasciato nella mia vita. Riposa in pace, caro Sinci, e grazie per tutto quello che mi hai dato. Grazie per l’aiuto che hai dato a mamma, quando sei rimasto con lei.
Che la tua anima possa continuare il suo cammino.

Grazie a tutti coloro che hanno capito e che mi sono stati vicino in un modo o nell’altro.



L’elaborazione del lutto per la morte di Sinci

E’ passata una settimana dalla morte di Sinci. Martedì scorso ero immersa nel dolore più acuto e inconsolabile. Oggi, a sette giorni di distanza, la fase acuta è terminata, sta subentrando l’accettazione, anche se permane un fondo di tristezza e momenti di incredulità e senso dell’assurdo. Ma quel dolore veramente insopportabile è passato. Così sento l’esigenza di mettere per iscritto alcune riflessioni emerse in questi giorni.
Di fronte a questo evento, la morte del mio amato gatto, mi sono ritrovata completamente impreparata. Innanzi tutto perché l’evento è stato improvviso e perciò, per sua stessa natura, traumatizzante. Poi perché più generalmente, di fronte alla morte e al lutto ci si trova quasi sempre impreparati. Mi sono trovata a vivere emozioni estreme e violente (tra queste la paura della morte, la paura del dolore e del vuoto causati dalla morte) e, posta di fronte alla necessità di prendere delle decisioni, ho agito basandosi su una sorta di istinto, perché la ragione era completamente fuori uso.

Ho istintivamente sentito il bisogno di non rimanere sola, contrariamente alla mia tendenza a fare le cose per conto mio. Ho chiesto aiuto.
Se penso a quanto è accaduto posso descriverlo come una serie di decisioni rapide, da prendere in stretta sequenza, ognuna delle quali poteva essere decisiva e irreversibile.
Non mi soffermo sulle decisioni che ho dovuto prendere per salvare il gatto. Ho ripensato alla sequenza degli avvenimenti e mi sono chiesta se avrei potuto, con scelte diverse, salvarlo dalla morte. Non ho una risposta. Posso però dire che ho fatto del mio meglio e probabilmente anche i veterinari che hanno cercato di curarlo prima e di salvargli la vita dopo, hanno fatto del loro meglio.
Il mio veterinario ha capacità ed esperienza e la clinica veterinaria dove l’ho portato è considerata la migliore della città. Continuare a cercare colpe e responsabilità diventa un esercizio crudele e infruttuoso.
Morto il gatto, la prima decisione che mi veniva richiesta era se portarmelo via per seppellirlo autonomamente o farlo cremare dal comune. In quel momento ero troppo addolorata e confusa per decidere, avrei potuto farmi influenzare da pressioni e consigli non sensibili o peggio ancora dalla mia paura di affrontare il dolore.
Ho seguito il consiglio amichevole di Walter di prendere un po’ di tempo per decidere. Il veterinario della clinica si è dimostrato sensibile e comprensivo e mi ha dato un giorno per pensarci. Il corpo di Sinci sarebbe stato conservato nella cella frigorifera. La mattina del giorno dopo ho chiamato un’amica, Alessandra, e sono scoppiata a piangere al telefono. Ho trovato grande comprensione e col suo senso pratico Alessandra si è offerta di accompagnarmi a prendere il micio alla clinica, di caricarlo sulla sua auto e di seguirmi fino alla mia casa di campagna per aiutarmi a seppellirlo. La decisione era presa.
Col senno del poi tutto appare più chiaro e semplice, ma il senno del poi rappresenta il risultato di un’esperienza già fatta e, tanto spesso, di un errore compiuto. Io ho scelto bene, ho scelto di onorare il gatto attraverso un rito funebre e di farlo riposare nel boschetto di pini della mia casa. Ma avrei potuto sbagliare scelta in quel momento di paura, dolore e confusione e aggiungere altro dolore a quello già esistente.
Nei giorni successivi ho utilizzato tutti gli strumenti a mia disposizione per aiutarmi a superare ed elaborare questa esperienza così eccezionalmente forte e traumatica.
Ho fatto ricorso ad un rimedio omeopatico, Ignatia, utilizzato per l’elaborazione del lutto (prescrittomi dal mio omeopata, in dose 30 CH, 4-5 granuli 3-4 volte al dì). Ho fatto ricorso ai fiori di Bach: Star of Bethlem (per lo shock), Gentian (per la depressione reattiva), Honeysuckle (per il lasciare andare). Ho ricevuto un trattamento shiatzu in cui, attraverso la diagnosi dei meridiani coinvolti (mastro del cuore: forti emozioni; intestino crasso: il trattenere) è emerso proprio il vissuto del lutto.
Nella prima fase acuta che è durata fino a giovedì sera (3 giorni), non avevo altri modi per aiutarmi se non quello di dare sfogo al pianto inconsolabile, non essere lasciata sola, parlarne con gli amici e sperare che questi rimedi naturali facessero il loro effetto.
Giovedì sera sono riuscita a fare un passo ulteriore. Mi sono messa al computer e ho iniziato a scrivere un testo in ricordo di Sinci. Poi, bisognosa di risposte e di comprensione ho fatto una ricerca su internet su “lutto per animale/dolore per la perdita di un animale amato” e ho trovato due articoli, estremamente esaustivi e confortanti, la cui lettura mi ha fornito un aiuto immenso e mi ha fatto capire che il mio agire era stato corretto (anche se incerto, esitante, perché non sostenuto da esperienza, conoscenza e…dalla cultura dominante) e che il dolore che provavo era del tutto legittimo.

Questi due articoli sono:

“Il dolore e la perdita di un animale amato” di Margaret Muns (su: ww.petloss.com/munsital.htm) esamina gli stadi del lutto (shock e negazione/rabbia/patteggiamento/depressione/accettazione) che sono gli stessi sia che si tratti della perdita di una persona cara che di un animale amato. In entrambi i casi parliamo di relazioni e di sentimenti. L’autrice inoltre suggerisce comportamenti che possono accelerare il processo di guarigione tra cui: legittimare la propria sofferenza, circondarsi di persone comprensive, commemorare la perdita dell’animale amato, acquisire conoscenze sul processo del lutto. Questo articolo, di derivazione anglosassone, costituisce un vero e proprio vademecum per chi soffre a causa della perdita di un animale caro. Legittima la sofferenza per la perdita di un animale da compagnia e fornisce strumenti di immediata applicazione per chi si trova smarrito di fronte a un’esperienza tanto disorientante.
“Dalla parte del proprietario: il cordoglio ed il lutto per la morte del proprio animale” di Barbara Alessio, psicologa e psicoterapeuta( apparso su: Sisca Observer, Anno 7, Numero 2, Dicembre 2003). L’autrice, affronta la tematica dell’eutanasia in campo veterinario, studiando l’argomento nella sua complessità e pluralità di significati che comprendono la riflessione sulla morte e sulla paura della morte, il significato del lutto e i fenomeni psichici ad esso correlati, il rapporto che si instaura tra proprietario ed animale, il ruolo del veterinario.

E’ proprio di questo profondo e illuminante articolo di Barbara Alessio che vorrei riassumere i punti salienti che mi hanno permesso di comprendere meglio le emozioni che stavo vivendo, mi hanno fornito un’ulteriore spinta a legittimare la mia sofferenza e a non dovermene invece vergognare perché non socialmente accettata e infine mi hanno confermato che ero sulla buona strada, nel mio desiderio di ritualizzare questo evento così doloroso.
Utilizzerò quindi le parole della dott.ssa Alessio, nei quattro punti che seguiranno (la titolazione e le sottolineature sono mie).


Riflessione sulla morte, la paura della morte e la rimozione della morte nella nostra società.

La morte, qualunque morte, prima di tutto fa paura. A tutti. Umilia il nostro sguardo, ci riconduce alla dimensione di creature, ci fa tornare noi stessi. C’è stato un tempo in cui la morte era sentita come realtà domestica, familiare: faceva parte del mondo quotidiano, era un momento importante della vita collettiva. Oggi è una realtà oscena, da nascondere. Non è evento naturale ma sventurato, il risultato di un incidente, un guasto. L’individualismo ne ha privatizzato la forma riducendo la solidarietà ed i significati condivisi così come la “medicalizzazione” rappresenta un tentativo estremo di rimuoverla dal nostro piano esistenziale (…)
Più si rimuovono l’angoscia di morte e i sentimenti panici, depressivi, inquietanti connessi all’esperienza della caducità e del limite, più si perde la possibilità di entrare in contatto con le fondamenta della nostra sensibilità. Gli aspetti più istintivi e naturali della condotta umana sono schiacciati ed organizzati in modo artificioso. Le emozioni più forti ed i moti dell’animo più profondi vengono vissuti con un senso di vergogna, di insicurezza, e giudicati dalla collettività quasi come manifestazioni di debolezza e di fragilità. L’imbarazzo di fronte alla morte e l’incapacità di esprimere autenticamente commozione e turbamento, alimentano la necessità di occultare continuamente quell’evento doloroso. Allora la fuga davanti al morente esprime non soltanto l’angoscia di morte, ma anche un più profondo desiderio di fuga da se stessi, dalla sterilità di un’esistenza che proprio nei momenti più cruciali non trova valore. Galimberti ci ricorda che l’etimologia di “sentimento” rimanda all’esistenza di un contenitore, la mente, che tiene in-sieme (syn) gli opposti, senza espellere uno a vantaggio dell’altro. Per provare sentimenti occorre tollerare tutte le esperienze, le ambivalenze, il bene e il male che coesistono l’uno a fianco dell’altro. Altrimenti c’è indifferenza, che è una forma di difesa. Morte e vita sono nell’inconscio coppie complementari: ecco perché la piena esperienza della vita implica l’accettazione ed il contatto profondo con la morte…
L’odierno occultamento della morte nasconde, in realtà, la nostra grande paura e smaschera l’impreparazione culturale di una società i cui membri si riconoscono incapaci di convivere con l’idea di finitezza e transitorietà, l’idea che ciascuno di noi è implacabilmente destinato a scomparire. La vicinanza della morte evoca risposte primitive, spesso caotiche e contrarie a tutte le aspettative. Ma attenzione allora ad applicare le categorie della razionalità in un processo che non può che generare irrazionalità.


Riflessione sul lutto per la perdita di un animale caro

Ma che dire allora della morte del proprio animale da compagnia? Come accostare il discorso della transitorietà dell’esistenza umana alla scomparsa di un “semplice” animale? Si potrebbe obiettare in prima battuta che non si possono applicare alla sua morte le stesse categorie interpretative che guidano la comprensione del lutto nei confronti di esseri umani. Ma, inaspettatamente forse, questa obiezione non ha fondamento per due ragioni: innanzi tutto perché il LEGAME è un legame d’amore, e replica la facoltà vitale dell’essere umano dello stabilire rapporti affettivi di reciprocità.(…) Con i nostri animali si crea un vero e scambio affettivo, si costruisce un mondo che è lo scenario della relazione, ricco, complesso, che riveste per l’uomo un’importanza immensa sotto il profilo psicologico. Un rapporto che è vitale in quanto reciproco. (…) Il proprietario ed il suo animale sono una coppia ed il legame che li unisce è molto profondo: è a tutti gli effetti un legame d’amore. Che riguarda non solo l’uomo dal momento che molti studi oramai attestano la biunivocità e la reciprocità di questo scambio affettivo. Gli animali sono in grado di attivare operazioni cognitive ed emotive molto complesse, soprattutto i mammiferi, che sono dotati di un cervello “emotivo” sostanzialmente simile al nostro.
A ciò si aggiunge che il concetto di LUTTO in psicanalisi ha un significato ampio, inerente qualsiasi esperienza di perdita del legame, persino a prescindere dalla morte reale. Noi sperimentiamo la morte sotto diversi aspetti: ogni perdita o commiato è in termini psicanalitici – e dunque interni – un lutto.
Nella vita ci accomiatiamo continuamente, e non solo dalle persone, ma anche da aspetti della nostra personalità o della nostra vita o da progetti.
Molti proprietari sono sorpresi dall’intensità del cordoglio che vivono per la morte del loro animale da compagnia. Non c’è da sottovalutare che la perdita di un animale può riattivare altre esperienze di lutto della persona (…): ogni nuova esperienza attiva la sensazione di perdere di nuovo tutte le persone che si sono perse in precedenza.


Riflessione sull’elaborazione del lutto e il superamento del dolore

L’espressione “elaborazione del lutto” è di Freud, il padre della psicoanalisi, e risale al 1915. Si riferisce a un lavoro psichico che comporta forza, movimento, fatica e spostamento di accenti, di attenzione, di priorità, di ottica. Il lutto implica la ristrutturazione di un nuovo rapporto con sé e con il mondo in seguito alla perdita dell’altro ed alla perdita di quanto di noi era legato all’altro.
L’elaborazione del lutto riguarda il processo lungo ed emotivamente difficile di guarigione da questa malattia dell’anima. Non è solo un distacco ed un abbandono ma anche una ricostruzione del nostro mondo interiore e del rapporto con la vita che conduciamo.
Perdere un amore è un po’ come morire, è veder svanire una parte di noi, della nostra esistenza, quella che esisteva assieme a quell’affetto. Ecco dove sta il significato VITALE delle nostre relazioni. La morte uccide una parte di noi: quella che amava quell’affetto. Non si potrà più essere uguali a prima. Il rapporto con l’animale crea un mondo comune solo ai protagonisti che lo creano e vivono, che l’esperienza della morte distrugge. Questo credo sia ancora più vero per la relazione con l’animale, perché è basato molto sul gesto e poco sulla parola, sulla comunicazione non verbale, molto più pregnante ed “antica”, profonda, regressiva. L’elaborazione del lutto dovrà allora consistere nell’elaborazione di un nuovo rapporto con il mondo: ciò che facevamo con l’altro, che eravamo con l’altro viene letteralmente seppellito. E’ la nostra morte attraverso la morte dell’altro.
Si rivela importante a questo proposito la sottolineatura di due aspetti che facilitano
il processo di lutto. La preparazione all’evento che protegge dal senso di confusione e rende più capaci di accettare la realtà della perdita (…). Le più gravi e prolungate reazioni di lutto si manifestano con maggiore probabilità, infatti, quando la morte viene percepita come improvvisa e immatura, perché in quel caso non si riesce ad anticipare mentalmente, cognitivamente ed emotivamente lo stato di perdita.
Mentre in relazione ai momenti che seguono la morte hanno grande incidenza i rituali del lutto ed inumazione, che riconoscono la grandezza dell’evento e offrono a chi ha subito una perdita un intervallo di tempo separato dalla vita normale.
Il rito è lo strumento che la cultura, anzi, le culture hanno nel tempo elaborato per aiutare l’individuo ad affrontare momenti molto emotivi, che hanno un rilievo non solo individuale e sociale. Tutte le culture hanno, fin dai tempi più remoti, identificato e codificato riti funebri. Il rito rispetta il tempo interno del lutto e lo aiuta, dà significato e contiene l’emozione, è rassicurante; aiuta l’elaborazione, ma soprattutto non lascia sola la persona.
L’esperienza di chi perde il proprio animale è nella società occidentale quella di una rimozione e banalizzazione dei vissuti.
Gli è negata la possibilità di esprimere ciò che prova perché la società non comprende e non accetta che si possa provare un legame profondo con un animale. Si vergogna, non sa bene come comportarsi. E così all’esperienza della perdita si aggiunge anche la solitudine, la sensazione di esclusione. Ma è anche impedito loro il ricorso a tutti quei riti che incanalano le emozioni e che aiutano il processo del lutto. Nessuno concepisce un congedo dal lavoro, nessuno accetta il pianto, manca un rito funebre socialmente condivisibile…La recente diffusione dei cimiteri per gli animali, o la possibilità di cremare, sono ancora poco conosciuti, non è facile reperire informazioni al riguardo…frequente è la ridicolizzazione.
Non bisogna avere idee preconcette sul lutto, ancor di più sul lutto che segue la morte di un animale, codificando quanto sia opportuno o quanto convenga che duri.
Quanto più emozionalmente siamo legati a chi si è perso, più sarà intenso e lungo il lutto.



Riflessione sul ruolo dei medici e dei veterinari

I medici sono uomini e donne che vivono questo tempo, dunque sono soggetti alle letture interpretative culturali di cui si è appena detto, che relegano la morte ad un “rimosso collettivo”. I valori quali felicità, bellezza, giovinezza, efficienza fisica ed economica e lo sviluppo delle tecniche biomediche, hanno avallato l’illusione dell’inesistenza delle barriere al controllo della natura, mutando il paradigma entro il quale è concettualizzata e vissuta la morte.
Per i medici nel concetto di cura è insito quello di successo e di guarigione. Il medico si è formato professionalmente per guarire e risolvere patologie ed i disturbi e considera istintivamente la morte altrui come un fallimento personale. I medici legano la loro arte alla salvaguardia della vita.
(…) Il Giuramento di Ippocrate nacque da uno scrupolo diverso da quello della necessità di garantire una competenza tecnica: nacque per garantire un comportamento etico. Il Giuramento segna qualcosa di più della nascita deontologica professionale: rappresenta la piena coscienza delle responsabilità del medico nei suoi rapporti con il malato, la famiglia del malato e la società più in generale. Non era una dichiarazione manichea della vita contro la morte…Era l’espressione ritualizzata di una filosofia di vita e di professione. Il corpus ippocratico infatti si occupa anche di tutto quell’insieme di pensieri e riflessioni che costituiscono da sempre una parte indispensabile dell’arte della medicina, una gamma completa di conoscenze al di là di quelle necessarie a comprendere i meri processi fisici della malattia.
Eppure i medici odierni sembrano dimenticare questa tradizione, e si avvicinano ai pazienti con una lente scrupolosa ma circoscritta.
(…) Motivazioni e percorsi individuali e passione per la dimensione più relazionale del proprio lavoro consentono invece di elaborare una filosofia del proprio lavoro che includa anche la morte, invece di occultarla.
“Il mestiere del medico mette in contatto con aspetti della vita – malattia, sofferenza,morte – che suggeriscono riflessioni che si spingono oltre la lama del bisturi per penetrare in quelle aree geografiche del pensiero che riguardano il nostro essere umani.” (G. Macellari)
Nell’ambito della medicina veterinaria (…) se si vuole imparare a dare un buon servizio va intrapresa l’apertura ad un più profondo coinvolgimento emotivo, che la letteratura anglosassone descrive come “Pet Loss Counseling” (Consulenza/sostegno nella perdita di un animale da compagnia)
Una buona pratica di accompagnamento consente il contenimento di tutte le emozioni dei protagonisti (sensi di colpa, angoscia, senso di sconfitta, depressione), anche dei veterinari.
La morte è un trauma: la perdita è un trauma per tutti. A ciò si aggiunge uno stereotipo assai radicato da sconfiggere: quello che la sensibilità costituisca un difetto, che funzioni il modello forte e distaccato, quello, cioè, disumano.
Non è più questione di fuggire ma di sedersi, non di parlare ma di ascoltare. Di comunicare con il sorriso, una mano, lo sguardo.
Il medico, prima condannato a guarire o a fallire, scopre allora un’altra filosofia della cura. Non è il TO CURE, che è curare per guarire ma è il TO CARE cioè il prendersi cura, condividendo pensieri e sentimenti con il cliente, aiutandolo a esprimere ciò che sente.
Più il dolore è espresso, più è condiviso e dunque sopportabile.
Questa impostazione vede la medicina non al servizio della vita, ma dei viventi: animali e persone, dunque al servizio dei morenti o di coloro che stanno accanto ai morenti.
ecopsicologia on line
ecoeconews
newsletter
ecopsicologia in azione
ecopsicologia webzine