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Intervista a Fritjof Capra
Lo “scrittore scienziato” unisce impegno scientifico, ambientale ed educativo per promuovere una rivoluzione di pensiero necessaria a riconoscere la natura più profonda della realtà. In questo processo, la metafora della rete e il pensiero di Leonardo fanno da guida teorica, l'attività del Center for Ecoliteracy è una guida pratica.
Fritjof Capra è un fisico austriaco nato a Vienna nel 1939. Scrittore di fama internazionale e direttore del Center for Ecoliteracy di Berkeley (California), da anni si impegna nella diffusione di quel pensiero rivoluzionario di stampo ecologico che egli stesso definisce come pensiero sistemico. Ispirato a studi fisici, biologici, ecologici, di scienze cognitive e sociali, il pensiero sistemico affonda le proprie radici nella teoria della complessità sorta negli anni ’70 e presto diffusasi all’interno di numerose discipline. In sintesi, si tratta di una concezione del mondo non statica e non lineare: tutte le componenti del reale sono pensate nella loro totalità (cosicché ogni singola parte è studiata a partire dal tutto) e sono concepite come facenti parte di un insieme di reti interconnesse tra loro, poste in un rapporto di costante equilibrio dinamico. Il discorso vale non solo per il mondo fisico, ambientale o vitale, ma anche per quello sociale e psicologico.

Capra, che di recente si è dedicato anche all’approfondimento di una sorta di precursore della “scienza della qualità” da lui promossa (così chiamata in contrapposizione alla più diffusa e affermata “scienza della quantità”) quale Leonardo Da Vinci, si occupa di diffondere il pensiero sistemico sia indirettamente, tramite svariate pubblicazioni scientifiche e divulgative, sia direttamente, grazie a numerosi seminari in tutto il mondo e al lavoro nelle scuole compiuto attraverso il suo Center for Ecoliteracy di Berkeley. L’obiettivo di diffondere questo nuovo modo di pensare, che egli stesso vede come un processo di “eco-alfabetizzazione”, mira fondamentalmente a promuovere la risoluzione della vera fonte di tutte le crisi del mondo occidentalizzato contemporaneo: si tratta infatti per Capra di un’unica grande crisi del pensiero, che ha allontanato l’uomo dalla percezione del suo essere parte di un mondo vitale e naturale più vasto. I problemi ecologici, biologici, economici, sociali e psicologici della nostra epoca derivano dunque tutti, secondo lo studioso, da una errata, o per meglio dire “obsoleta”, percezione del reale, ancora di stampo dualistico-cartesiano e meccanicista-newtoniano. Solo un cambiamento radicale di paradigma culturale può condurre ad una loro completa risoluzione, e Capra è uno dei principali promotori di questa rivoluzione del pensiero, non solo sociale e politica, ma anche – e forse soprattutto – individuale.

Ho avuto modo di conoscere Fritjof Capra di persona al IX Congresso Nazionale di Medicina Omeopatica organizzato dalla FIAMO (Federazione Italiana Associazioni e Medici Omeopati) a Verona dal 28 al 30 maggio 2010, presso il Centro Carraro. La sua è stata una partecipazione d’eccezione (è un fisico, e non si occupa direttamente di omeopatia), ma i suoi interventi sono stati precisi, ben strutturati e soprattutto molto graditi ai presenti. Non si è infatti limitato ad esporre la teoria della complessità e la concezione sistemica del vivente, ma si è anche piacevolmente posto in dialogo con i medici omeopati presenti, che lo hanno interrogato direttamente su questioni inerenti questa disciplina e le sue difficoltà. Che cos’è, per esempio, la salute per Capra, e perché l’omeopatia riceve così tante critiche dal mondo scientifico? «La salute», spiega reinserendo il concetto all’intero del proprio pensiero, «deve essere intesa come un equilibrio dinamico all’interno di un processo che comprende la sfera mentale, quella materiale e quella vitale. Pertanto, lo stato di salute dell’essere umano è dato da un’interconnessione tra il comportamento adottato, il modo in cui ci si alimenta e le modalità di interazione con l’ambiente». «La principale difficoltà dell’omeopatia», continua, «credo invece sia quella di non cercare un vero confronto con la scienza, o quantomeno di cercarlo da più di trent’anni in una direzione sbagliata. Forse se l’omeopatia dialogasse con la fisica, piuttosto che con la biomedicina, potrebbe dedicarsi più facilmente alla ricerca di un fondamento scientificamente comprovato per questa disciplina».


Professor Capra, lei nella sua carriera si è occupato, nell’ordine, prima di scienza (e per certi versi anche di spiritualità), ecologia, economia e politica, poi di istruzione e negli ultimi anni sta scrivendo dei libri che riguardano un personaggio poliedrico come Leonardo Da Vinci. Quale autore è stato la sua principale fonte di ispirazione, visto che il suo lavoro è culturalmente così ampio?

Ho cominciato la mia carriera come scienziato, occupandomi di fisica teorica e laureandomi a Vienna. A diciotto anni, quando ero ancora studente, mi ricordo di avere letto un libro di Werner Karl Heisenberg dal titolo Fisica e filosofia. All’epoca ne capii solo la metà, ma mi ispirò moltissimo. Nel testo Heisenberg raccontava con grande passione dei problemi non solo razionali, ma anche emotivi ed esistenziali, che gli scienziati atomici dell’epoca si trovavano a dovere fronteggiare nel tentativo di descrivere una realtà che quanto più veniva studiata nel dettaglio tanto meno sembrava avere un senso. La cosa mi affascinava molto. Ci vollero circa dieci anni perché si potesse costruire una teoria radicale che rompesse con alcuni concetti fondamentali classici, come spazio assoluto, tempo lineare, oggetti ben definiti e catene di rapporti causa-effetto. Una frase di quel testo che mi impressionò molto sosteneva però che l’ormai superata divisione cartesiana tra mente e materia era ormai entrata così a fondo nel nostro inconscio che ci sarebbero voluti moltissimi anni prima di superarla accettando la nuova realtà descritta dalla fisica quantistica. Condizionato moltissimo da questa affermazione, io sto semplicemente cercando di dedicarmi a velocizzare questo processo, promuovendo un cambiamento di paradigma culturale che implica una profonda rivoluzione sociale e culturale.


Ora si sente quindi più uno scienziato che si dedica alla divulgazione o più uno scrittore socialmente impegnato?

Il libro e le considerazioni di Heisenberg sono rimasti sempre con me e negli anni ‘60, quando ero ormai impegnato nella’attività di ricerca universitaria, mi accorsi di alcune analogie tra il nuovo mondo della fisica quantistica e quello descritto da svariate filosofie orientali che, in quel periodo di rivoluzione culturale, stavano iniziando a diffondersi un po’ ovunque. Ciò mi portò a scrivere il mio primo libro, Il Tao della fisica. In quel periodo non avrei mai pensato di divenire uno scrittore: mi sentivo ancora un fisico che aveva semplicemente scritto un testo in base ad alcune intuizioni originali. Il libro ebbe però molto successo e iniziarono a contattarmi (e persino a venirmi a trovare) moltissimi scienziati che mi illustrarono come anche nel loro specifico campo fosse di fatto possibile interpretare le più recenti scoperte tramite concetti filosofici simili a quelli da me descritti. Ispirato stavolta da questi studiosi, pensai di scrivere un secondo libro, Il punto di svolta, in cui mostrai la possibilità di utilizzare, non solo in fisica, ma anche in biologica, ecologia, psicologia, sociologia ed economia, un unico medesimo modello interpretativo reticolare. Dopo questo secondo libro ne scrissi un altro e un altro ancora e iniziai gradualmente a modificare l’immagine che avevo di me stesso: non mi sentivo più uno “scienziato scrittore”, ma piuttosto uno “scrittore scienziato”. Anche adesso infatti, pur essendo ancora uno scienziato, e pur rimanendo in costante dialogo con diversi colleghi di tutto il mondo, non sono uno scienziato nel senso istituzionale del termine. Quello che cerco di fare è inserire le più recenti considerazioni scientifiche all’interno di libri e stimolare così le persone a riflettere sulle conseguenze del nuovo quadro della realtà che si può ricavare da esse. Mi dedico proprio perciò da anni anche all’attivismo ambientale, a seminari universitari, a conferenze aziendali, ma soprattutto ai bambini e all’istruzione in generale.


Mentre la scelta di tornare indietro nel tempo e occuparsi di Leonardo è dettata dal semplice desiderio di identificare nel grande Da Vinci una sorta di precursore del suo pensiero o c’è dell’altro?

Questo è molto interessante, perché in realtà non è stata una scelta davvero motivata. Curiosamente, nonostante il percorso di studi e personale che ho compiuto e che mi vede ora occuparmi di Leonardo possa sembrare molto coerente e razionale, in realtà non lo è affatto. Arrivati a una certa età – e io ormai ho settant’anni – si sente un po’ l’esigenza di guardare indietro. Negli anni ’70, quando scrissi Il Tao della fisica, lessi per caso una citazione di Da Vinci. Si trattava di un passaggio in cui Leonardo illustrava il proprio metodo scientifico e rimasi molto colpito dalla perfetta corrispondenza tra la sua descrizione e quella del metodo utilizzato oggi. Mi ricordo che in quel momento pensai che mi sarebbe davvero piaciuto approfondire la figura di Leonardo e magari scriverci su anche un libro, ma non feci mai nulla e quest’idea rimase per quasi trent’anni nient’altro che un bel sogno. Nel 1995 andai a un’esposizione di un gran numero di disegni di Da Vinci organizzata a Londra e riconobbi con stupore nella sua scienza una scienza di schemi e processi. Pensai che sarebbe stato estremamente interessante analizzarla alla luce della teoria dei sistemi e di quella della complessità, ma ci vollero ancora alcuni anni prima che potessi prendere seriamente queste mie intuizioni dedicandomi ad approfondire il pensiero di Leonardo. I miei due libri su Da Vinci, che presto diventeranno tre (sono convinto che chiunque si dedichi seriamente a Leonardo non possa non subirne il fascino travolgente e coinvolgente), non sono quindi il culmine delle mie ricerche, ma un sogno degli anni ’70 divenuto finalmente realtà.


Quindi ora sta lavorando a un terzo libro su Leonardo?

Sì, e sarà un libro ancora più grande e impegnativo degli altri. Si occuperà di tutti i brani della sua scienza analizzati molto puntigliosamente. Proprio perciò sarà infatti molto probabilmente una pubblicazione accademica. Tratterà delle sue teorie sulla dinamica dei fluidi, sulla geologia, sulla botanica, sulla meccanica e sull’anatomia. Il perno di tutto il discorso rimane sempre la sua “scienza della qualità”, ma questa volta andrò molto nel dettaglio delle sue scoperte nei singoli settori di cui si è occupato.


Torniamo alle sue precedenti pubblicazioni e ai suoi obiettivi sociali. Lei ha parlato di un nuovo paradigma culturale e di nuovo modo di pensare in modo olistico e sistemico. Questa rivoluzione del pensiero si dovrebbe attuare anche tramite l’impegno congiunto della scienza, dell’istruzione e dei mass media: ma secondo lei a che punto siamo ora e come stiamo procedendo?

Probabilmente siamo ancora molto indietro e stiamo procedendo a rilento, ma sono anche convinto che possiamo ben sperare. Qualche cambiamento è infatti già visibile. Mi riferisco soprattutto a quel forte movimento sociale che sta gradualmente, ma già abbastanza rapidamente, modificando le metafore che utilizziamo per descrivere la nostra esperienza quotidiana. Fino a qualche anno fa la metafora centrale della società industriale occidentale era la macchina. Questo ha condizionato enormemente la visione – proprio perciò detta meccanicistica – di tutta la realtà, portando gli uomini a pensare ad ogni cosa come ad un qualcosa di dominabile, sfruttabile e correggibile. Da qualche tempo ci stiamo invece spostando verso la metafora della rete. Non stiamo solo iniziando a comprendere che il mondo vitale e ambientale sono un’unica rete, ma abbiamo anche iniziato ad organizzarci socialmente in termini di reti. Penso specialmente ai giovani, che sono totalmente immersi nelle loro reti sociali promosse anche sul web, grazie a portali come Facebook. Io ho una figlia di 24 anni e lei adesso vive in un mondo di reti. Questo significa che per spiegarle la concezione reticolare del vivente e dell’esistente non ho più alcun bisogno di spiegarle cosa sia una rete. Lei lo sa già benissimo. Sembrerà banale, ma io alla sua età lo stavo appena scoprendo.


Secondo lei, però, questo grande cambiamento culturale avverrà in tempi utili e grazie ai movimenti filosofici, scientifici, sociali e politici o sarà la condizione planetaria che alla fine ci costringerà a compierlo, quando tutto non potrà mai più essere come prima?

Se ce la faremo o no, purtroppo non lo so. Noi intellettuali e scienziati ci tenteremo. La sfida è stimolante, ma sono anche convinto che per certi versi sarà proprio il pianeta a costringere le persone a cambiare. La crisi globale diventerà infatti sempre più grave e la gente si renderà conto sempre più di quanto sarà indispensabile cambiare radicalmente il proprio modo di pensare e agire. A quel punto sarà fondamentale comprendere anche che tutti i problemi che ci troviamo già oggi ad affrontare sono interconnessi tra loro. Sono infatti tutti problemi sistemici, che richiedono un nuovo tipo di comprensione ed una nuova visione d’insieme entro cui essere inseriti, analizzati e affrontati. E questa visione d’insieme si avvale della metafora della rete che, come ho già detto, sembra fortunatamente già radicarsi nel pensiero contemporaneo.


Probabilmente se la concezione reticolare della realtà si sta davvero già affermando molto è dovuto proprio al suo lavoro. Sono ormai più di quindici anni che lei ha fondato a Berkeley il suo Center for Ecoliteracy per promuovere un cambiamento di coscienza su larga scala grazie al lavoro nelle scuole e con i giovani. È soddisfatto dei risultati raggiunti?

Sono molto soddisfatto del successo che abbiamo avuto. Abbiamo lavorato con le scuole per molti anni e abbiamo sviluppato una pedagogia molto speciale, che si pone l’obiettivo di promuovere e insegnare l’ecocentrismo direttamente nelle scuole. All’inizio eravamo un gruppo principalmente formato da accademici interessati a progettare un curriculum di formazione ecologica per le scuole, senza però realmente conoscere la struttura e il funzionamento delle istituzione scolastiche di oggi (diverse da quelle dei nostri tempi). Ci siamo presto accorti che il modo in cui stavamo cercando di lavorare non funzionava. Le nostre proposte venivano infatti archiviate insieme a mille altre e anche quando venivano accolte ci sembrava di non riuscire a contribuire davvero alla formazione dei bambini. Poi abbiamo pensato che l’unico metodo che si sarebbe potuto rivelare realmente efficace forse sarebbe stato sviluppare idee in collaborazione con gli educatori scolastici. In circa dieci anni di incontri di gruppo, i nostri accademici e gli insegnanti e direttori delle scuole elementari e superiori si sono trovati a collaborare costantemente non solo alla realizzazione di un progetto educativo rivoluzionario, ma anche alla strutturazione di un metodo istruttivo davvero innovativo. Negli anni successivi abbiamo testato tutto ciò nelle scuole e abbiamo scritto numerosi libri e guide – scaricabili gratuitamente dal sito www.ecoliteracy.org – per incentivare e aiutare le istituzioni interessate ad adottare questo curriculum e il nostro metodo. Adesso sono ormai cinque anni che l’ecoalfabetizzazione da noi promossa è sufficientemente diffusa negli Stati Uniti, così abbiamo cambiato organizzazione iniziando a concentrarci soprattutto sulle pubblicazioni online e sulla pianificazione di seminari (circa quattro o cinque all’anno) a cui partecipano ormai insegnanti provenienti da tutto il mondo.


Allora a quando l’apertura di altri centri, magari anche in Italia – dove forse avremmo particolare bisogno di una maggiore consapevolezza ecologica?

In tutta onestà abbiamo già pensato alla possibilità di aprire altri centri, ma abbiamo deciso di non farlo, fondamentalmente per due ragioni. La prima è che i sistemi scolastici sono diversi a seconda dei Paesi, e la seconda è che anche il rapporto ecologico con l’ambiente e il territorio è diverso da nazione a nazione. Noi, a Berkeley, non conosciamo questi aspetti per ogni Paese e non potremmo mai conoscerli altrettanto bene quanto potrebbe fare dall’interno qualcuno del contesto culturale di riferimento. Non potremmo quindi mai venire in Italia ad aprire uno dei nostri centri, ma potremmo certamente essere disposti a consigliare qualcuno di intenzionato a iniziare ovunque un’avventura simile alla nostra. È proprio per questi motivi che organizziamo continuamente dei seminari a cui cerchiamo di invitare insegnanti provenienti da ogni nazione. È probabilmente l’unico modo in cui è possibile consentire agli educatori di adattare la nostra pedagogia al proprio Paese e così alimentare il dibattito internazionale su questi temi. Agli interessati mi sento di consigliare il pdf scaricabile dal sito del Center for Ecoliteracy intitolato Smart by Nature – Schooling for Sustainability: è un libro in cui sono raccolte le storie di numerose scuole che hanno adottato il nostro curriculum e la nostra pedagogia.


Le faccio un’ultima domanda. Ne Il Tao della fisica lei descrive una sua forte intuizione come un momento irrazionale in cui si è sentito improvvisamente parte del gioco cosmico dell’universo, da lei definito come la «danza di Shiva». Affinché la mentalità occidentale cambi realmente, pensa sia davvero sufficiente diffondere le conoscenze più aggiornate spronando le persone a riflettere sulla condizione contemporanea, o crede che tutto questo si riveli inutile se alla fine le persone non si lasciano poi coinvolgere da una diversa percezione intuitiva della realtà, non spiegabile razionalmente?

Il punto è che credo fermamente che la realtà che dobbiamo riuscire ancora comprendere è essenzialmente non lineare. Ciò significa che essa non si può comunicare con un linguaggio logico o sequenziale e che, per essere compresa, richiede necessariamente l’utilizzo di facoltà irrazionali. È proprio per tali motivi che diventano sempre più essenziali capacità di intendere qualcosa in modo immediato quali l’empatia e l’intuizione. Sono anche convinto che queste facoltà possano essere persino utilizzate non solo individualmente, ma anche collettivamente. Esse possono essere infatti a mio avviso stimolate sia dall’istruzione che da quei contesti di vita in comunità in cui si favorisce la costruzione di forti legami di gruppo. È proprio questa di fatto la direzione che cerchiamo di seguire con le nostre attività del Center for Ecoliteracy di Berkeley.







La versione integrale del testo dell'autore dell'intervista, con la narrazione di questo incontro avvenuto il 28 maggio a Verona, si trova su EcoPsiWiki
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